IL TRIBUNALE CIVILE E PENALE Visto l'appello proposto dal pubblico ministero avverso le ordinanze emesse dal Tribunale di Nocera Inferiore rispettivamente in data 30 marzo 2012 ed in data 11 luglio 2012 con le quali sono stati concessi gli arresti domiciliari a G., A, P., E., G., I, D., P., G., D'A., P., M., S., G., F., A., Q., M., B., G., D'A., P., A. Riuniti i procedimenti, a scioglimento della riserva assunta alla udienza del 3 ottobre 2012 ha pronunciato e pubblicato la seguente ordinanza ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen. 1. Il pubblico ministero impugna, con l'appello cautelare, le ordinanze de libertate emesse dal Tribunale di Nocera Inferiore con le quali il giudice del dibattimento ha sostituito, ai sensi dell'art. 299 cod. proc. pen„ la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari nei confronti degli imputati indicati in epigrafe nonostante gli stessi fossero attinti, in via cautelare, da imputazioni aggravate ai sensi dell'art. 7 d.l. 152 del 1991 conv. nella legge n. 203 del 1991 e dunque dall'uso del metodo mafioso do dalla finalita' di agevolare associazioni di tipo mafioso. 1.1. Il primo giudice, sulla base di un orientamento minoritario espresso dalla giurisprudenza di legittimita', dispose la sostituzione della massima misura coercitiva sul rilievo che la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, prevista dall'art. 275, terzo comma, cod. proc. pen. , fosse sussistente con esclusivo riferimento alla fase genetica del vincolo e non anche con riferimento alla fase funzionale di esso, potendo il giudice, in tale ultimo caso, procedere alla ordinaria verifica del trattamento cautelare adeguandolo al caso concreto attraverso la scelta della misura ritenuta piu' idonea alla salvaguardia dell'esigenza cautelare. Nella specie, argomento' il Tribunale come lo stato di incensuratezza della maggior parte degli imputati, i risalenti precedenti penali a carico degli imputati non incensurati, il decorso non trascurabile di un periodo di detenzione complessivamente sofferto da ognuno di essi con funzione di deterrente, la mancata violazione delle prescrizioni connesse agli arresti domiciliari cui gli imputati furono sottoposti, dopo l'esecuzione dell'ordinanza cautelare, con provvedimento adottato dal tribunale del riesame che, in un primo momento, escluse la sussistenza dell'«aggravante mafiosa» (aggravante successivamente ripristinata all'esito del giudizio di rinvio conseguente all'annullamento pronunciato in parte qua dalla Corte Suprema di cessazione), lo scioglimento del comune di Pagani costituissero, nella loro globalita', elementi che, pur insuscettibili di escludere la sussistenza delle esigenze cautelari, consentissero che le stesse fossero passibili di protezione con la concessione degli arresti domiciliari. 1.2. Avverso la suddetta decisione ha proposto appello il pubblico ministero, affidando la doglianza ad un unico complesso motivo con il quale denuncia il vizio di violazione della legge processuale penale (art. 299 cod. proc. pen. in relazione all'art. 275, 3° comma cod. proc. pen.). Deduce l'appellante come gli argomenti, che primo giudice ha ritenuto di trarre da taluni arresti giurisprudenziali (Cass. 25167 del 2010 e Cass. 4424 del 2011) fossero ampiamente contraddetti da un opposto e prevalente indirizzo di legittimita' secondo il quale sarebbe logicamente insostenibile la tesi per cui la presunzione di inadeguatezza delle misure diverse dalla custodia cautelare in carcere, quanto ai reati di cui all'art. 275, 3° comma, cod. proc. pen., opererebbe limitatamente alla sola fase genetica della cautela giacche', se cosi fosse, la disciplina sarebbe connotata da ampi tratti di irrazionalita' nella misura in cui imporrebbe inizialmente l'adozione del massimo vincolo cautelare salvo ad ammetterne immediatamente dopo la successiva graduazione. Da altro lato, piu' squisitamente giuridico, l'appellante rileva come il prevalente indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimita' fosse diversamente orientato sul rilievo che la chiara lettera della disposizione processuale, di cui art. 275 cpv. cod. proc. pen., non autorizzerebbe l'approdo interpretativo, cui e' giunto il primo giudice, sia perche' l'art. 275, 3° comma, cod. proc. pen. non distingue tra fase genetica e fase esecutiva della misura e sia perche', quanto alla specifica fase esecutiva, l'art. 299, 1° comma, cod. proc. pen., espressamente rinvia all'art. 275, 3° comma, cod. proc. pen. con la conseguenza che il legislatore ha voluto mantenere, per taluni reati, ed anche nel corso di detta fase, la presunzione di inadeguatezza delle misure cautelati diverse dalla custodia in carcere (Cass. 351190 del 2011; Cass. 11749 del 2011; Cass. 34003 del 2010; Cass. 20447 del 2005; Cass. 23924 del 2004). 2. Nelle more della celebrazione dell'udienza camerale per la decisione dell'appello proposto dal pubblico ministero, la questione circa l'ambito di operativita' della presunzione di cui all'art. 275 cpv. cod. proc. pen. per i reati aggravati dall'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e' stata sottoposta al vaglio delle Sezioni unite della Corte Suprema di cessazione con la conseguenza che all'udienza del 25 maggio 2012 su accordo delle parti, l'incidente cautelare e' stato rinviato all'udienza del 28 settembre 2012 e successivamente differito all'odierna udienza, per la quale era fissato altro analogo incidente, sicche', riunite le procedure, le parti hanno rassegnato le loro conclusioni come da verbale in atti. In particolare le parti private hanno concluso, in via principale, per il rigetto dell'appello ed in via subordinata affinche' il tribunale distrettuale sollevasse la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275 cpv. cod. proc. pen. per contrasto, con gli artt. 3, 13 e 27 Cost. 3. La Corte Suprema di cassazione con le sentenze 19 luglio 2012 n. 34473 e 34474 ha statuito, a sezioni unite, che «la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275 cod. proc. pen., comma 3, opera non solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari». 4. Il Collegio non ha alcun motivo per discostarsi da tale insegnamento in quanto perfettamente aderente al dato normativo espresso dalla legislazione ordinaria ed al quale il tribunale distrettuale si e' attenuto in precedenti decisioni adottate anteriormente al recente arresto delle Sezioni Unite penali, tant'e' che, in sede di giudizio di rinvio, ripristino', riconoscendo la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 conv. nella legge n. 203 del 1991, la custodia cautelare in carcere nei confronti di tutti gli appellati. 5. Va infatti precisato che, all'esito dei gravami interposti avverso la primitiva ordinanza cautelare e con la quale venne disposta la custodia in carcere nei confronti di tutti gli appellati, il tribunale del riesame, escludendo la sussistenza dell'aggravante privilegiata, sostitui' la custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari (tranne che per la posizione di DA.,P, A., per il quale annullo' l'ordinanza impugnata per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza). Successivamente, a seguito di ricorso per cassazione proposto dagli imputati e dall'ufficio del pubblico ministero, la Corte Suprema, in accoglimento del solo ricorso proposto dalla pubblica accusa, annullo' l'ordinanza del tribunale distrettuale limitatamente alla esclusione dell'aggravante di cui all'art. 7, legge n. 152 del 1991 ed alla inconfigurabilita' del reato di cui all'art. 416 ter c.p. (e per il D A., P., A., per la ritenuta esclusione dei gravi indizi di colpevolezza) cosicche' il giudice del rinvio, in ossequio ai principi dettati dalla sentenza di annullamento, ripristino' la custodia carceraria (v. sub 4) in seguito sostituita, a sua volta, con la misura degli arresti domiciliari con le ordinanze emesse dal Tribunale di Nocera Inferiore e che, con il presente gravame, il pubblico ministero impugna. 6. Chiarito che la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per i reati aggravati dall'art. 7, della legge n. 152 dei 1991 (conv. in legge n. 203 del 1991) opera, a legislazione «vigente», sia nella fase genetica che in quella funzionale della misura, va ora valutata la successiva questione e cioe' se la presunzione assoluta prevista in questi casi dal legislatore ordinario, pro semper in itinere iudicii, sia costituzionalmente compatibile o comunque se lo sia la perdurante vigenza di essa anche nella fase successiva all'adozione della cautela. Va ricordato che il tribunale distrettuale ebbe a dichiarare la questione manifestamente infondata, in sede di giudizio di rinvio, equiparando, senza alcuna distinzione, i reati di mafia e di criminalita' organizzata con quelli comunque commessi con il metodo mafioso o con la finalita' dell'agevolazione mafiosa anche se provvisoriamente attribuiti a soggetti che non avessero (o per i quali fosse insussistente la «prova cautelare» che avessero) collegamenti con le associazioni di cui all'art. 416 bis cod, pen. L'autorevolezza e le ragioni poste a fondamento della questione sollevata dalle Sezioni unite, lo sviluppo della progressione processuale (nel giudizio di rinvio la valutazione del tribunale distrettuale era perimetrata in relazione alla fase genetica della misura laddove, in questa sede, rileva la fase esecutiva di essa) e le valutazioni di merito operate dal giudice che ha emesso il provvedimento impugnato le quali, sebbene non spendibili a legislazione vigente a causa del segnalato sbarramento, sarebbero, rimossa la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria, condivisibili con riferimento alla maggior parte dei rapporti giuridici incidentali (esclusi quelli riguardanti le posizioni di D.A., P., A., D.A., P. M. e G., A.) impongono di sollevare la questione di legittimita' costituzionale in quanto non manifestamente infondata e rilevante nel giudizio a quo. 7. In via preliminare, e rinviando a quanto in seguito sara' ulteriormente precisato, si Osserva come la non manifesta infondatezza della questione si possa desumere dalla traccia disegnata, in materia, dalla giurisprudenza costituzionale soprattutto a seguito alle pronunce n. 265 del 2010 nonche' numeri 164, 231 e 331 del 2011 e n. 110 del 2012 mentre la questione si presenta poi rilevante, in relazione alla concreta fattispecie, in considerazione del fatto che, oltre a quanto innanzi precisato (v. sub. 6), a carico degli appellati e' stata ritenuta sussistente l'aggravante prevista dal citato art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 (conv. in l. 203 del 1991) e tenuto conto dell'espresso richiamo contenuto nell'art. 299 cod. proc. pen., comma 2, alla presunzione stabilita dall'art. 275 cpv. cod. proc. pen. 7.1. Originariamente il codice di procedura penale, in presenza di un titolo di reato che consentisse una restrizione della liberta' personale, non prevedeva alcun trattamento cautelare differenziato ne' in fase genetica e ne' nella fase funzionale (ed. esecutiva) della misura cautelare. Delineate le condizioni di applicabilita' delle cautele personali, ancorate le stesse ad una prognosi di elevata probabilita' di colpevolezza ed al necessario perseguimento, in concreto, di un bisogno cautelare (fumus e pericula ex libertate), delimitato il ricorso alla custodia cautelare in carcere alle ipotesi di assoluta necessita', disciplinati i casi concernenti il ruolo assegnato alle fattispecie impeditive, modificative ed estintive della limitazione della liberta' personale, il legislatore delegato ritenne di aver fedelmente tradotto la direttiva n. 59, della legge delega anche in conformita' al principio guida secondo cui il codice di procedura penale doveva «attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona ed al processo penale». Circoscritto il potere giurisdizionale in materia de libertate nell'ambito del principio della discrezionalita' vincolata, il sistema processuale esigeva (ed in regime ordinario ancora esige) che ogni singola vicenda cautelare dovesse essere monitorata, sia al momento dell'applicazione che nel corso della sua esecuzione, sulla base non di una discrezionalita' libera del giudice ma attraverso precisi canoni (cd. «discrezionalita' guidata») che il legislatore aveva fornito (articoli 273, 274 e 275 cod. proc. pen. con particolare riferimento, quanto a tale ultima disposizione, ai principi di proporzionalita' ed adeguatezza) richiedendo, a pena di nullita' (art. 292 cod. proc. pen.), l'esposizione delle «specifiche esigenze cautelari» e degli indizi che giustificano «in concreto» la misura, con l'indicazione degli «elementi di fatto» da cui sono desunti; nonche' l'esposizione delle «concrete e specifiche ragioni» che rendono la custodia in carcere l'unico strumento idoneo a soddisfare le esigenze cautelari. Questo regime (ordinario) e' stato - a partire dal 1991 - progressivamente modificato da un «regime cautelare speciale di natura eccezionale» (Corte costituzionale sentenza n. 265 del 2010) che ha escluso (con le presunzioni assolute) o ridotto (con le presunzioni relative) la discrezionalita' (pur sempre vincolata) del giudice introducendo criteri legali di valutazione della «prova cautelare» (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.). 7.2. Criteri che, quanto alla tollerabilita' sistematica delle presunzioni assolute incidenti sui diritti della persona, sono stati ritenuti compatibili con i principi costituzionali (Corte costituzionale, ordinanza n. 450 del 1995) sul rilievo che la scelta del tipo di misura (il quomodo della cautela) non implica necessariamente l'attribuzione al giudice di un potere di apprezzamento in concreto, potendo detto potere essere oggetto di una valutazione in termini generali da parte del legislatore «nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti», con la conseguenza che, perimetrato l'ambito di operativita' della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere ai delitti di criminalita' organizzata di stampo mafioso, l'esercizio della discrezionalita' legislativa in proposito puo' ritenersi non irragionevole «in considerazione dell'elevato e specifico coefficiente di pericolosita' per la convivenza e la sicurezza collettiva inerente a tali reati (...) non potendosi ritenere soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice la determinazione dell'accennato punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della liberta' personale e gli antagonisti interessi collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale». La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (sentenza del 6 novembre 2003 - ricorso n. 60851/00), ritenendo conforme la disciplina processuale italiana in materia di criminalita' organizzata alle norme convenzionali, ha precisato come una presunzione legale di pericolosita' possa essere giustificata, in particolare quando non sia assoluta, ma si presti ad essere contraddetta dalla prova contraria. Sulla scia di numerose precedenti pronunce (sentenze n. 139 del 1982, n. 333 del 1991, n. 225 del 2008), la Corte costituzionale, con la sentenza n. 139 del 2010, ha ribadito che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit. In particolare, e' stato posto in rilievo che l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo' cogliere tutte le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 41 del 1999)». 7.3. La Corte costituzionale ha successivamente chiarito (sentenze n. 265 del 2010 nonche' numeri 164, 231 e 331 del 2011 e n. 110 del 2012) come a violare il precetto di cui all'art. 3 Cost. fosse il carattere assoluto della presunzione, in mancanza di una ratio giustificativa del regime derogatorio, ratio che e' stata ravvisata in rapporto ai delitti di mafia perche' «dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche - legate alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella generalita' dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure "minori" sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosita')», tanto sulla base del presupposto che il vincolo associativo nel delitto di associazione di tipo mafioso esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di' omerta', che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti essendo «suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall'altro, una diffusivita' dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua "base statistica" alla presunzione considerata». Data per scontata la indubbia gravita' e riprovevolezza dei fatti di reato ricompresi nel catalogo di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., non va tuttavia trascurato che in taluni casi le esigenze cautelati pur non potendo essere completamente escluse - sarebbero suscettibili di trovare idonea risposta anche in misure diverse da quella carceraria, che valgano a neutralizzare il "fattore scatenante" o ad impedirne la riproposizione, almeno con riferimento alle fattispecie delittuose la cui «struttura» e le cui «connotazioni criminologiche» non giustifichino, alla pari di quelle gia' oggetto di declaratoria di incostituzionalita', una disciplina derogatoria fondata su presunzioni assolute. Alla luce di tali considerazioni, la Corte costituzionale ha quindi ritenuto, sebbene con riferimento alle norme oggetto dei precedenti scrutini, che la disposizione impugnata (l'art. 275, terzo comma, cod. proc. pen.) violasse, in parte qua, sia l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonche' per l'irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia l'art, 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della liberta' personale; sia, infine, l'art. 27, secondo comma, Cost,, in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Al fine di ricondurre il sistema a sintonia con i valori costituzionali, la Corte ha ritenuto che non fosse necessario rimuovere integralmente la presunzione de qua, ma solo il suo carattere assoluto, che implicava una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore sacrificio necessario» e cio' in quanto «la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria - atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario - non eccede, per contro, i limiti di compatibilita' costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l'apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilita' di esigenze cautelar'nel grado piu' intenso». 7.4. Comportando una indubbia semplificazione del procedimento probatorio, le presunzioni, in subiecta materia, incidono pesantemente sull'obbligo di motivazione, particolarmente pressante e costituzionalmente imposto nella materia riguardante le limitazioni della liberta' personale «in senso stretto», con la differenza che, mentre le presunzioni assolute non ammettono la prova del contrario sicche' depotenziano, al massimo grado possibile, l'obbligo della motivazione, essendo l'effetto giuridico prodotto direttamente dalla legge, viceversa le presunzioni relative ammettono la prova contraria, avendo il giudice l'obbligo di spiegare, quantomeno al cospetto di allegazioni difensive, le ragioni per le quali il fatto costitutivo della restrizione non sia suscettibile di essere modificato o estinto da altri specifici fatti. Da cio' consegue come sia costituzionalmente problematico tollerare presunzioni assolute soprattutto quando esse travalichino il momento genetico della restrizione e perdurino, senza limiti temporali, durante la fase esecutiva della misura cautelare. La giurisprudenza di legittimita' (Cassazione penale sez. un. 31 marzo 2011 n. 27919) ha lucidamente chiarito come l'ordinanza che dispone l'applicazione di una misura cautelare sia atto istantaneo, naturalmente destinata a produrre effetti protratti nel tempo, con la conseguenza che, in relazione allo status indotto da tale provvedimento, non vi e' alcuna fissita', imponendosi una continua verifica circa il permanere delle condizioni che hanno determinato la limitazione della liberta' personale e la scelta di una determinata misura cautelare: «la finalita' cui la disciplina con tutta evidenza corrisponde e' quella di assicurare che in ogni momento la restrizione sia conforme ai principi di adeguatezza, proporzionalita', extrema ratio: qualunque fatto nuovo giustifica una rinnovata valutazione». Attraverso tali coordinate meglio allora si' comprende la ratio essendi dell'orientamento minoritario, espresso dalla giurisprudenza di legittimita' e pienamente sposato dalla motivazione del provvedimento impugnato, secondo cui il momento genetico di applicazione della misura cautelare e le vicende successive del titolo dovrebbero essere autonomamente considerati in riferimento alla ragione che giustifica la deroga alla disciplina ordinarla prevista per i procedimenti di mafia. Cio' in quanto la massima di esperienza, secondo cui il vincolo di appartenenza a un sodalizio criminoso puo' essere interrotto soltanto dalla misura cautelare della custodia in carcere, sarebbe altamente persuasiva in riferimento al momento applicativo, non cosi' relativamente al periodo successivo, proprio perche' il vincolo associativo sarebbe stato nel frattempo contrastato dall'applicazione della misura con la conseguenza che la parificazione dei due momenti, ai fini della presunzione legale di adeguatezza, non risulterebbe giustificata secondo il criterio della ragionevolezza. 7.5. Nella consapevolezza che gli esiti delle recenti pronunce di costituzionalita' non consentono al tribunale distrettuale di sottoporre direttamente a scrutinio, come oggetto del giudizio, la disposizione di cui all'art. 299, secondo comma, cod. proc. pen. limitatamente all'alinea «salvo quanto previsto dall'art. 275, comma 3», e' invece lecito dubitare - secondo la traccia disegnata dalle Sezioni unite 19 luglio 2012 n. 34473 e dunque fatta esclusione per coloro che siano seriamente indiziati di legami con le organizzazioni di tipo mafioso - della legittimita' costituzionale dell'art. 275 c.p.p., comma 3, secondo periodo nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi con il metodo mafioso o al fine di agevolare le attivita' delle associazioni previste dall'art. 416 bis c.p. (aggravanti cosi' contestate nel presente procedimento), e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. A fondamento del giudizio di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita', che qui si intende sollevare con riferimento a talune posizioni(P., Q., B., F., S. e D.P.), militano, in primo luogo, gli argomenti attraverso i quali la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 265 del 2010 nonche' numeri 164, 231 e 331 del 2011 e n. 110 del 2012) e' pervenuta ad escludere l'operativita' della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per alcune tipologie di reato con particolare riferimento a quelle associative rispetto alle quali, a differenza delle associazioni di tipo mafioso, la natura del vincolo non e' stata ritenuta tale da giustificare la presunzione assoluta de qua. In secondo luogo, va considerato che «i delitti aggravati ai sensi del d.l. n. 152 del 1991, art. 7, - avendo, o potendo avere, una struttura individualistica -potrebbero, per le loro caratteristiche, non postulare necessariamente esigenze cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere» (Cassazione penale Sezioni unite 19 luglio 2012 n. 34473). Sul punto, il tribunale distrettuale ha gia' avuto modo di precisare, nel presente procedimento, come la dottrina e la giurisprudenza piu' recente si siano correttamente interrogate, posto il richiamo nell'art. 7, d.l. n. 152 del 1991 alle condizioni di cui all'art. 416 bis cod. pen., sul se l'interpretazione dei segni linguistici contenuti nell'art. 416 bis, comma 3 cod. pen., fosse pienamente equivalente ai dati contenutistici dell'aggravante del metodo mafioso o se, al contrario, non fosse necessaria una diversa configurazione delle note descrittive dell'associazione mafiosa rispetto a quelle formalmente omologhe proprie dell'aggravante del metodo mafioso e cio' sul condivisibile presupposto che l'elemento sostitutivo previsto dall'art. 416 bis cod. pen. e la circostanza aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991, enunciando un medesimo disvalore con il ricorso a cifre diverse, imporrebbero una loro ricostruzione in termini di reciproca autonomia. Ed infatti il metodo mafioso rilevante ai sensi dell'art. 416 bis cod. pen. altro non e' che la connotazione strutturale di un fenomeno associativo complesso, previsto dalla norma incriminatrice dal momento della genesi a quello del consolidamento dell'associazione mafiosa e tale metodo (ossia quello di cui all'art. 416 bis cod. pen.) implica certamente un forte vincolo intersoggettivo e ampiamente ramificato in ambito territoriale e dunque il ricorso ad un'attivita' durevole spiegata attraverso i contenuti tipici descritti dalla fattispecie incriminatrice ma non esige che le condizioni tipiche del sodalizio mafioso debbano necessariamente tradursi in ogni singolo atto concreto del programma di delinquenza e cioe' riproporsi in qualsiasi manifestazione della vita dell'associazione mafiosa. Ed infatti l'avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo, di cui alla fattispecie circostanziata, si aggancia per definizione alle modalita' concrete di realizzazione di un circoscritto fatto delittuoso, cui necessariamente accede, con la conseguenza che e' nell'attualita' dei singolo episodio criminoso che vanno ricercate le note tipiche che connotano la fattispecie circostanziata de qua. Integrate le predette condizioni e dunque evocato il potenziale di intimidazione corrispondente alle note tipiche descrittive dell'aggravante, non ha senso, in conformita' alla ratio dell'aggravante, accertare se esita una associazione mafiosa e se fautore dei reato aggravato dal metodo mafioso ne faccia o meno parte, una volta appunto che sia stata realizzata una condotta che sia inequivocabilmente riconoscibile in termini di sicura e precisa evocazione del potenziale intimidativo proprio di un sodalizio mafioso, indipendentemente quindi dalla appartenenza del soggetto agente o dalla esistenza stessa dell'associazione mafiosa, requisiti non affatto richiesti dalla legge come elementi costituivi dell'aggravante. Come e' stato condivisibilmente rimarcato, non e' necessario che il delinquente faccia professione, autentica o millantata», di appartenenza mafiosa, ma e' imprescindibile che tenga il comportamento minaccioso (anche implicito) idoneo a richiamare alla mente ed alla sensibilita' del soggetto passivo tale attinenza. In questa ottica, peraltro, si inquadra l'indirizzo giurisprudenziale di legittimita' che, distinguendo tra i versanti dell'aggravante stessa, ossia distinguendo tra finalita' agevolatrice e metodo mafioso, sottolinea la necessita' di provare, ai lini dell'applicazione dell'aggravante, l'effettiva esistenza, nel primo caso, dell'associazione beneficiaria della finalita' agevolatrice, a differenza della seconda ipotesi, relativa all'utilizzazione del metodo mafioso, laddove e' indifferente che sia reale o soltanto supposto il sodalizio la cui forza di intimidazione venga evocata. In questi sensi si e' espressa reiteratamente la giurisprudenza del tribunale quando ha precisato che l'art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 convertito in I. 12 luglio 1991, n, 203 ha introdotto una circostanza aggravante ad effetto speciale, per i delitti puniti con pena diversa dall'ergastolo, costituita da due fattispecie circostanziali, una di carattere oggettivo, qualora il delitto base venga commesso «avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 Codice penale » (c.d. del metodo mafioso) ed una di carattere soggettivo, qualora il delitto base venga commesso al «fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo» (c.d. della agevolazione mafiosa), prevedendo, tra l'altro, in entrambi i casi un grave inasprimento del trattamento sanzionatorio. A tale proposito, la ragione dell'aggravamento di pena risiede nel fatto che, attraverso l'adozione del metodo mafioso, sia possibile, di regola, vincere piu' facilmente la resistenza del soggetto passivo del reato. Non e' quindi necessario che l'agente faccia parte di un'associazione di stampo mafioso, potendo la circostanza aggravante essere integrata anche nei confronti di soggetti che non abbiano alcun reale collegamento con sodalizi criminali, purche' la condotta risulti concretamente collegata alla forza intimidatrice del vincolo associativo, in quanto, come si e' innanzi precisato, la norma tende, sul versante oggettivo dell'aggravante, a reprimere efficacemente il metodo mafioso, ossia a punire piu' gravemente chi faccia uso della carica di intimidazione che da tale metodo promana, mentre, sul versante soggettivo di essa, inasprisce il trattamento sanzionatorio per coloro che, intranei o meno dell'associazione, agevolino con la realizzazione di un singolo fatto delittuoso il sodalizio. Ne consegue che la carica di intimidazione o la finalita' agevolativa e' adoperabile anche dal delinquente individuale e tanto sull'indubbio presupposto che in determinate aree le associazioni mafiose esercitano una vera e propria signoria sul territorio, ossia si contraddistinguono per una presenza asfissiante ed intollerabile, nota ai cittadini i quali percio' risultano piu' facilmente esposti alle vessazioni ed ai soprusi. La giurisprudenza di legittimita' ha convalidato tale approdo avendo precisato che la circostanza aggravante di cui all'art. 7 d.l. 13 maggio 1991, conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203, qualifica l'uso del metodo mafioso, fondato sull'esistenza in una data zona di associazioni mafiose, anche in riguardo alla condotta di un soggetto non appartenente a dette associazioni, cio' in quanto presupposto dell'aggravante non e' l'appartenenza alla associazione mafiosa applicandosi l'aggravante stessa a tutti coloro, partecipi o meno di una sodalizio criminoso, la cui condotta sia riconducibile ad una delle due forme in cui puo' atteggiarsi e, per i soggetti partecipi, opera anche con riferimento ai reati-fine dell'associazione (v. Cass. sez. I, 20 dicembre 2004 ric. P.G. in proc. Tornasi e altri, RV 230451). Le Sezioni Unite avevano gia' infatti chiarito come l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152 del 1991 fosse applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzino gli estremi, siano essi partecipi in qualche modo al sodalizio mafioso, siano essi estranei (cassazione penale sez. un. 28 marzo 2001 n. 10). Ad ulteriore conferma della non necessaria sovrapposizione tra reato di criminalita' organizzata (nella specie reato associativo ex art. 416 bis cod. pen.) ed aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 va ricordato il principio di diritto espresso dalle Sezioni unite (sentenza n. 37501 del 15 luglio 2010) secondo cui, ai fini dell'esclusione della sospensione feriale dei termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, prevista per i procedimenti di criminalita' organizzata, e' ininfluente che il reato specificamente contestato al singolo indagato sia eventualmente aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, ma rileva soltanto che la contestazione si inserisca nell'ambito di un procedimento di criminalita' organizzata, intendendosi per tale quello che ha ad oggetto una qualsiasi fattispecie caratterizzata da una stabile organizzazione programmaticamente orientata alla commissione di piu' reati. In altri termini sarebbe la particolare natura del vincolo associativo (associazioni di tipo mafioso o altre particolari fattispecie associative in materia di terrorismo) ad avere l'attitudine di differenziare i casi per i quali risulti possibile, in via di eccezione, ricorrere a presunzioni assolute nella materia cautelare. Ne consegue che - siccome, per quanto innanzi detto, le connotazioni criminologiche e strutturali di un fatto di reato aggravato dall'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 possono differire notevolmente sotto il profilo dell'offensivita' e della pericolosita' sociale rispetto alle condotte poste in essere da chi fa parte dell'associazione di tipo mafioso o rispetto alle condotte di direzione o di partecipazione ad associazioni di tipo mafioso - la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere a soddisfare il bisogno cautelare non poggerebbe nel primo caso (coincidente peraltro con i fatti di cui al presente procedimento nei quali il vincolo associativo non risulta ne' provato e neppure contestato) su solide basi razionali e su massime di esperienza generalizzate derivando da cio' un'inammissibile parificazione ed una ingiustificabile disciplina derogatoria fondata su presunzioni assolute. Va solo aggiunto che le medesime considerazioni valgono anche per la diversa tipologia dell'aggravante della c.d. «agevolazione mafiosa» in quanto la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per un reato in tal senso aggravato, comporterebbe una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e chi, invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso in via episodica agevolarle, rimanendo il proposito criminoso del tutto estraneo al programma delinquenziale dell'associazione malavitosa. 7.6. Alla luce delle considerazioni che la Corte costituzionale ha tracciato con le sentenze n. 265 del 2010 nonche' numeri 164, 231 e 331 del 2011 e n. 110 del 2012, ne consegue, secondo il tribunale, la non manifesta infondatezza della questione di' legittimita' costituzionale, violando la norma impugnata (art. 275, terzo comma, cod. proc. pen.), in parte qua, sia l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati dall'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, contestati a chi non faccia parte di associazioni di' tipo mafioso, a quelli concernenti il reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. e/o a quelli concernenti i delitti aggravati dall'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e contestati ad imputati che facciano parte di tali associazioni (cd. delitti di mafia) nonche' per t'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; sia l'art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della liberta' personale; sia, infine, l'art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionati tipici della pena. 8. Proprio per le suindicate ragioni, va Osservato come, in punto di manifesta infondatezza della questione di costituzionalita', debbano distinguersi, dalle altre, le posizioni di D'A., P., A., D'A., P., M e G.A. Per esse l'appello del pubblico ministero deve essere accolto senza la necessita' di dover sollevare la questione di legittimita' costituzionale, in quanto, a differenza delle altre posizioni cautelari, e' predicabile nei loro confronti la sussistenza, allo stato degli atti, di seri e concreti elementi di legami con l'associazione camorristica capeggiata, secondo l'accusa, dalla famiglia D'A., P. Gia' la Corte Suprema di cassazione ebbe a rilevare, tassando in parte qua il primitivo provvedimento del tribunale del riesame, come non fosse inconferente, per poter legittimare la sussistenza dell'aggravante del metodo mafioso, l'esistenza di un sodalizio camorristico nel luogo di commissione del fatto addebitato allorquando i fruitori dell'attivita' di coartazione fossero gli stessi soggetti che dirigevano, come nella specie, o comunque ruotavano nell'orbita del sodalizio camorristico che alla luce del sole perseguiva obiettivi di penetrazione nei gangli della amministrazione locale, sfruttandone economicamente le connivenze. Le successive acquisizioni investigative avevano poi ampiamente corroborato tale approdo facendo emergere come il G., nella qualita' di sindaco del comune di Pagani, avesse intessuto profondi rapporti con l'organizzazione camorristica, ricevendone l'appoggio elettorale e mettendo a disposizione di essa la cosa pubblica con la promessa di agevolare l'infiltrazione camorristica in attivita' economiche per la realizzazione di vantaggi ingiusti. In tal senso sarebbe particolarmente istruttiva la pressione che le persone offese hanno dichiarato di avere subito nel presente procedimento circa le costrizioni ricevute perche' concedessero ad una cooperativa del D'A., P., M. la gestione dei parcheggi del centro commerciale «P.». Va ricordato che i suddetti appellati sono imputati di reati di concorso in concussione continuata e, per il G. ed il D'A., P., M. anche del reato art. 416 ter cod. pen. (configurato, in base al principio di diritto espresso dal giudice di legittimita', con riferimento ad utilita' equiparabili al denaro e non alla corresponsione di somme di denaro) cosi come specificati nelle ordinanze, note alle parti, del tribunale del riesame che, a fronte di una contestazione cumulativa, opero' una selezione dei fatti per i quali ritenne sussistente la gravita' indiziarla dapprima con esclusione dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e successivamente con il suo riconoscimento all'esito del giudizio di rinvio. Nel quale giudizio furono valorizzate le dichiarazioni prodotte dal pubblico ministero rese da P., M., C., P., G., A. e G. V. dichiarazioni che, in quanto parte integrane del titolo cautelare sostituito dal giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, devono ritenersi pienamente utilizzabili nel giudizio dell'appello cautelare. 8.1. P., M. riferiva sui rapporti tra G., V., capo di una cosca limitrofa, e D'A., P., M., dirigente dell'associazione camorristica paganese, rapporto di vera e propria alleanza, rinsaldato anche dal comparaggio tra gli stessi, circostanza che serviva a fortificare anche i legami criminali tra i gruppi che si fornivano appoggio reciproco. Quanto a sue eventuali conoscenze circa rapporti con politici o pubblici amministratori da parte di G., V. e D'A., P., M., P., M., riferiva di aver visto il D'A., portare materiale di propaganda elettorale riguardante G., dicendo che quest'ultimo era amico suo e che se avesse vinto le elezioni si aprivano le porte del Comune. Riferiva infine di aver sentito parlare del Centro Commerciale P. allorche', conversando con altri appartenenti ad ambienti delinquenziali, tra cui Z. G., figlio di A., apprendeva che i D'A., P. stavano per prendere in mano anche il parcheggio del centro Commerciale. 8.2. C., P., riferiva che venivano settimanalmente consegnati al D'A., P., M., i proventi estorsivi relativi alle estorsioni perpetrate nella zona di «Barbazzano». Riferiva che D'A., P., A., fratello di M., era il vero capo, dell'organizzazione in quanto deputato a governare il braccio militare del gruppo mentre D'A., P., M., oltre a curare la riscossione delle estorsioni in «Barbazzano», trattava grossi quantitativi di stupefacenti e gestiva tutti i rapporti con i colletti bianchi, preoccupandosi di dare un volto pulito all'organizzazione e riuscendo ad acquisire di fatto il controllo della M., dei parcheggi e di altre attivita' quali la raccolta dei rifiuti. I rapporti di D'A., P., M. con persone non appartenenti all'organizzazione erano incentrati, secondo il dichiarante, sullo scambio di piaceri tant'e' che, nel periodo della prima elezione a Sindaco di A., G., M., D'A., P. contatto' il capo dell'organizzazione, cui era incardinato il dichiarante, C., F., capo zona del Bronx, il quale dopo una breve riunione convoco' gli associati dicendo loro che, per espressa disposizione di A. e M., D'A., P., dovevano trovare il maggior numero di voti per il G. Riferiva che tutto il territorio (cd.«Bronx»), fu tappezzato notte e giorno di manifesti elettorali del G., con una mobilitazione generale del gruppo tant'e' che in quel periodo dovettero organizzare feste ed incontri con il G. Il quale si mise realmente a loro disposizione, fornendo denaro e posti di lavoro. Ed infatti, in diverse occasioni, il dichiarante ricevette denaro dal G. (50 euro per volta) quale riconoscimento del suo particolare attivismo tra i membri del clan A., G., fu garantita totale protezione nel corso della campagna elettorale nel Bronx ed in particolare tale protezione fu garantita dalla presenza costante di M., D'A., P. Il G., veniva condotto dalle singole famiglie alle quali il G. regalava somme di denaro che variavano a seconda della composizione della famiglia stessa ed in base ad i voti che queste avrebbero espresso. 8.3. G., A., precisava che D'A, P., A., si occupava del livello direttivo dell'organizzazione, mentre M., D'A., P., gestiva le cooperative dei parcheggi e manteneva i contatti con i politici dedicandosi alla gestione del Bacino SA\1 di Pagani. Riferiva che nel corso di una competizione elettorale comunale D'A., P., M. aveva sostenuto il G., con l'intesa che lo avrebbe appoggiato anche alle elezioni regionali. Ricordava che in una circostanza si reco' ad una cena assieme a M., D'A., P. e a tale V., S., consigliere di Sant'Egidio del Montealbino. In siffatta occasione si parlo' dei parcheggi in corso di realizzazione nel comune di Sant'Egidio dove si intendeva effettuare un'operazione simile a quella gia' fatta a Pagani. La gestione dei parcheggi a Sant'Egidio doveva essere concessa al dichiarante che l'avrebbe gestita avvalendosi della ditta facente capo a M., D'A., P., il quale era solito incontrare persone presso il Montalbino, un bar - pasticceria, luogo ove il dichiarante noto', in una occasione, il sindaco G., con due persone che in genere usavano accompagnarlo. 8.4. G., V., elemento apicale di un'organizzazione camorristica operante in Sant'Egidio Montalbino e dedita in particolare al traffico degli stupefacenti, precisava i rapporti intercorsi tra la sua organizzazione e quella paganese (...«con loro eravamo una cosa sola»), territorialmente limitrofa alla sua, facente capo al clan F., D'A. Del quale clan il dichiarante tributava l'esistenza e la perdurante operativita' anche dopo le vicende, dal dichiarante (almeno allo stato) sommariamente accennate, della scarcerazione di F., T. e dei contrasti tra il clan D'A., P., F., ed il clan C., specificando che l'organizzazione paganese si riforniva di stupefacenti dalla sua associazione mentre le attivita' estorsive venivano condotte e pianificate, anche in collegamento con il suo clan, dall'organizzazione paganese diretta in particolare da D'A., P., A., che aveva rinsaldato i legami con i F., avendo sposato F., R. Stretto un legame di comparaggio tra suo figlio A. e D'A., P., M., riferiva che i D'A., P. gli avevano chiesto, in due occasioni, voti per l'elezione del G. Una prima volta, nonostante il profuso impegno nel procacciare voti, non erano giunti in cambio favori alla sua organizzazione. Quando, la seconda volta, M., D'A., P. gli chiese nuovamente di sostenere la candidatura di G., disse che «le cose erano cambiate» sicche' il G. si impegno' con il suo gruppo a procacciare i voti e chiese al D'A., M. un posto per il figlio A., posto che effettivamente ottenne (circostanza, questa, confermata da G., A.), Per la campagna elettorale a favore del il dichiarante riferiva di essersi attivamente adoperato in piu' direzioni, sia procacciando voti tra i suoi parenti e sia tra altre persone collegate al suo gruppo. Per convincere le persone a votare per il G., rappresentava loro tutte le potenzialita' che, in termini di lavoro, cio' avrebbe rappresentato, ossia sapeva del parcheggi che si dovevano gestire, dei capannoni che si dovevano realizzare ed altro. Nell'ambito dei suoi rapporti con M., D'A., F., si stabili' che tutto cio' che riguardasse il collegamento con la Pubblica Amministrazione sarebbe stato gestito dal D'A. Sapeva anche che nel periodo delle elezioni, G., nella zona cosi detta del Bronx di Pagani, ebbe a tenere piu' riunioni con persone di quella zona. Era a conoscenza di cio' in quanto M., D'A., P., gli chiedeva di mandargli dei giovani perche' partecipassero a tali riunioni. La presenza dei suoi ragazzi aveva una duplice funzione, in quanto da un lato serviva ad incrementare il pubblico presente e dall'altro a mostrare il livello di sostegno a favore del G. Quanto al Centro Commerciale di Pagani, cui era interessato il gruppo D'A., P., seppe dal figlio A., che i D'A., P., si stavano occupando del parcheggio del Centro Commerciale e di altro. 8.5. I suindicati elementi (da sub 8 a sub 8.4) depongono dunque per la sussistenza di profondi legami tra il G. i ed i D'A., indicati come esponenti apicali dell'omonimo clan, e pertanto nei loro confronti deve ritenersi sussistente la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare In carcere e tanto sulla base del principio di diritto recentemente affermato dalle sezioni unite 19 luglio 2012 n. 34473 e 34474 per il quale «la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex art, 275 cod. proc. pen., comma 3, opera non solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari». Ne consegue che, sul punto, la doglianza mossa dall'appellante al provvedimento impugnato e' fondata perche', in costanza di un criterio di valutazione legale circa l'adeguatezza della sola custodia in carcere sia in fase genetica che nella fase esecutiva del vincolo cautelare, il primo giudice non poteva, indipendentemente da ogni valutazione sull'adeguatezza o meno della misura meno afflittiva, sostituire la custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari sicche' il provvedimento impugnato va in parte qua riformato, come da pedissequo dispositivo, salva la sospensione dell'esecuzione della presente ordinanza ai sensi del terzo comma, dell'art. 310 cod. proc. pen. 9. Quanto invece alla rilevanza della questione per le restanti posizioni, osserva preliminarmente il Collegio come nei confronti degli altri imputati non vi siano seri e concreti indizi di appartenenza ad associazioni camorristiche: per nessuno di loro, per quanto consta, risulta condanna o risultano acquisiti atti nel presente o in altro procedimento dai quali si possano desumere elementi rilevanti dimostrativi di un legame con l'associazione camorristica di riferimento. Per alcuni di essi, peraltro, le vicende cautelari (come cristallizzate nei titoli cautelari definitivi: ordinanze tribunale del riesame dell'agosto 2011 e del gennaio 2012) sono limitate a singoli fatti o a fatti cronologicamente distanziati; nessuno di loro (ad eccezione del F. del quale riferisce il solo G., A., senza tuttavia riscontro alcuno sull'accennato collegamento criminale) e' attinto dalle dichiarazioni in precedenza evidenziate. Ne consegue che per le suddette ragioni, ed al fine di evitare una inammissibile assimilazione tra posizioni processuali diverse essendo differente la rispettiva pericolosita' sociale, deve essere sollevata la questione di legittimita' costituzionale. Cio' precisato, l'appello cautelare del pubblico ministero dovrebbe essere accolto dal tribunale distrettuale sul rilievo che, a diritto vigente, la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per i suddetti reati, in quanto aggravati ai sensi del d.l. n. 152 del 1991, art. 7, deve ritenersi operante, senza distinzione alcuna, sia con riferimento dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva e sia anche con riferimento alle successive vicende del titolo. Nondimeno, come in precedenza anticipato (sub 1.1.), il primo giudice motivo' nel senso che lo stato di incensuratezza della maggior parte degli imputati, i risalenti precedenti penali a carico di quelli non incensurati (nel caso di specie, F.), il decorso non trascurabile di un periodo di detenzione complessivamente sofferto da ognuno di loro con funzione di detenente con particolare riferimento agli imputati incensurati (nel caso di specie, B., D., P., Q., S., P., E.), la mancata violazione delle prescrizioni connesse agli arresti domiciliari cui gli imputati furono sottoposti, lo scioglimento del comune di Pagani costituissero, nella loro globalita', elementi che, pur insuscettibili di escludere la sussistenza delle esigenze cautelari, consentissero che le stesse fossero passibili di protezione con la concessione degli arresti domiciliari. Tali aspetti, rilevanti ai fini del trattamento cautelare soprattutto in considerazione del fatto che gli arresti domiciliari sono apparsi in concreto adeguati alla salvaguardia delle esigenze cautelari, non possono essere valutati dal giudice dell'appello cautelare qualora non venga rimossa la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere prevista dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. Peraltro - avuto riguardo al principio limitatamente devolutivo che regola, con gli opportuni temperamenti, anche l'appello cautelare - va segnalato come non faccia neppure parte del devoluto la questione circa l'adeguatezza o meno degli arresti domiciliari a salvaguardare i pericula libertatis, essendosi il pubblico ministero esclusivamente doluto della violazione di legge inerente al superamento della presunzione assoluta de qua. Ne deriva che, se rimossa la detta presunzione, il gravame andrebbe rigettato per assenza di doglianza specifica sul punto. 10. Sulla base delle precedenti considerazioni, deve dichiararsi - con riferimento alle posizioni degli appellati P., E., G., D., P., G., S., G., F., A., Q., M. e B., G., rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p., nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi con il metodo mafioso o al fine di agevolare le attivita' delle associazioni previste dall'art. 416 bis cod. pen., contestati a chi non faccia parte di associazioni di tipo mafioso, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelar'possono essere soddisfatte con altre misure; non manifesta infondatezza ravvisabile in relazione ai seguenti articoli della Costituzione: l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati dall'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, contestati a chi non faccia parte di associazioni di tipo mafioso, a quelli concernenti il reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. e/o a quelli concernenti i delitti aggravati dall''art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e contestati ad imputati che facciano parte di tali associazioni (cd. delitti di mafia) nonche' per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; sia l'art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelar'privative della liberta' personale; sia, infine, l'art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionati tipici della pena. In base all'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87 va dichiarata, limitatamente alle descritte posizioni, la sospensione del procedimento e va disposta l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ferma restando la misura cautelare in atto. Incarica la Cancelleria di provvedere alla separazione delle regiudicande cautelari relative alle posizioni di D'A., P., D'A., P., M. e G., A., rispetto a quelle relative a P., E., G., D., P., G., S., G., F., A., Q., M. e B., G. Incarica altresi' la Cancelleria di provvedere, quanto a tali ultime posizioni, alla notifica di copia della presente ordinanza alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alla comunicazione della stessa ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.